STRAGE DOPO STRAGE
Alfredo Facchini
Gaza non è Bondi Beach.
La cronaca arriva ogni giorno come un referto stropicciato, senza titoli né rumore.
L’ultimo: un attacco israeliano colpisce una scuola per sfollati, accanto all’ospedale Al-Durra, nel quartiere Al-Tuffah di Gaza City.
Corpi a pezzi: sette. Numeri provvisori, come sempre. I vivi che chiamano aiuto. Israele che blocca i soccorsi. Poi il tempo fa il resto.
Ogni giorno Gaza muore in silenzio.
E in chi guarda cresce una stanchezza opaca. Il sospetto che l’orrore, ripetuto, al rallentatore, diventi normalità definitiva.
È uno stato d’animo quasi indecente: sentirsi irrilevanti. Non complici, non colpevoli in modo diretto, ma laterali. Come se ciò che accade non avesse più bisogno di noi nemmeno come spettatori. Le immagini scorrono, i numeri si sommano, e dentro resta una sensazione di vuoto che non urla. Si deposita.
È qui che il danno diventa politico. Quando anche noi cominciamo a dubitare che dire, scrivere, raccontare serva ancora a qualcosa.
Eppure è proprio lì che non si può smettere di tessere. Non per illusione di efficacia immediata, ma per non consegnare tutto al silenzio. Continuare a tessere non salva il mondo. Serve a non perderlo del tutto.
@attualita
Capisco molto bene questa sensazione di inutilità perché la sento in me da giorni e giorni. E più la sento e più mi incazxo con me stessa, perché so che sto cadendo nel trappolone mediatico che, calato il sipario su Gaza, guarda ad altro, mentre Netanyahu e i suoi coloni criminali continuano ad uccidere ed occupare illegalmente altri territori. La buona coscienza borghese della stampa occidentale si sente a posto: Trump ha dettato la “sua” ricetta su Gaza, pace fatta. Ma quale pace? Al massimo è una mezza tregua. Ma tanto basta per far calare il silenzio sul genocidio che continua.
Ed allora è proprio adesso che dovremmo alzare di più la voce.

