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  • @attualita
    Capisco molto bene questa sensazione di inutilità perché la sento in me da giorni e giorni. E più la sento e più mi incazxo con me stessa, perché so che sto cadendo nel trappolone mediatico che, calato il sipario su Gaza, guarda ad altro, mentre Netanyahu e i suoi coloni criminali continuano ad uccidere ed occupare illegalmente altri territori. La buona coscienza borghese della stampa occidentale si sente a posto: Trump ha dettato la “sua” ricetta su Gaza, pace fatta. Ma quale pace? Al massimo è una mezza tregua. Ma tanto basta per far calare il silenzio sul genocidio che continua.
    Ed allora è proprio adesso che dovremmo alzare di più la voce.










  • @attualita #israele #palestina #genocidioenpalestina #puliziaetnica

    Secondo una lettera di esperti in questo campo alla rivista The Lancet, studi su altre guerre, la maggior parte delle quali molto meno distruttive di quella israeliana nella piccola enclave, indicano che tra le tre e le quindici volte più persone vengono uccise da metodi di guerra indiretti, piuttosto che diretti.

    Gli autori stimano prudentemente un bilancio delle vittime indirette quattro volte superiore a quello delle vittime dirette. Ciò significherebbe che, come minimo, 350.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza a causa delle azioni di Israele.

    La realtà è probabilmente ancora peggiore. Questo senza nemmeno menzionare le centinaia di migliaia di palestinesi che hanno riportato ferite orribili e traumi psicologici.

    I pianificatori di guerra israeliani sanno esattamente come funziona questo rapporto diretto-indiretto. Ecco perché hanno scelto di distruggere quasi tutte le case di Gaza, di bombardare le strutture elettriche, igieniche e idriche, di radere al suolo gli ospedali e di bloccare gli aiuti mese dopo mese.

    Sapevano che questo sarebbe stato il modo in cui Israele avrebbe potuto compiere un Genocidio, offrendo ai suoi alleati, i governi occidentali e il loro esercito di lobbisti, una “carta per uscire di prigione” in cambio della loro attiva Complicità.

    Il cosiddetto “cessate il fuoco” di Donald Trump è solo un ulteriore strato di inganno in questo infinito gioco di specchi e fumo. L’UNICEF, l’agenzia delle Nazioni Unite per la protezione dell’infanzia, riferisce che meno di un quarto dei camion degli aiuti umanitari sta entrando a Gaza, nonostante il continuo blocco israeliano che impedisce la fame, nonostante gli impegni israeliani concordati nell’ambito del “cessate il fuoco”. A quanto pare, questo non viene registrato come una grave violazione del cessate il fuoco. Passa inosservato.

    L’UNICEF riferisce inoltre che solo a ottobre, all’inizio del “cessate il fuoco”, quasi 18.000 neomamme e neonati hanno dovuto essere ricoverati in ospedale a Gaza per malnutrizione acuta.

    Il Genocidio non è finito. Israele potrebbe aver rallentato il ritmo delle uccisioni dirette bombardando Gaza, ma le uccisioni indirette continuano incessanti. E così fa il “dibattito” orchestrato da Israele in Occidente, progettato per oscurare e giustificare l’Omicidio di Massa della popolazione di Gaza.

    Jonathan Cook è il vincitore del Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. I suoi libri includono “Israele e lo Scontro di Civiltà: Iraq, Iran e il Piano per Ricostruire il Medio Oriente” (Pluto Press) e “Palestina Scomparsa: Gli Esperimenti di Israele Nella Disperazione Umana” (Zed Books).

    Traduzione: La Zona Grigia

    Fonte: https://www.jonathan-cook.net/blog/2025-12-10/israel-con-numbers-killed-gaza/?







  • Ma è un altro esempio di retorica fallace che rovescia la realtà. Chi conosce il lavoro di Francesca Albanese sa che proprio la difesa dei principi universali, la tutela della vita, della dignità, della libertà dalla persecuzione, è al centro del suo mandato alle Nazioni Unite. E le sue denunce recenti lo confermano. Nel rapporto presentato al Consiglio ONU per i Diritti Umani nel 2024, Albanese ha documentato con rigore ciò che stava accadendo a Gaza: «bombardamenti indiscriminati e assedio prolungato» da parte di Israele, accompagnati dal blocco degli aiuti umanitari e dalla fame imposta alla popolazione civile. Ha descritto la distruzione deliberata di infrastrutture civili vitali (abitazioni, scuole, ospedali, reti idriche ed elettriche) come un metodo di attacco mirato a «distruggere una collettività in quanto tale, con particolare esposizione dei bambini e dei neonati». Sono parole che evocano l’ombra del crimine più grave, il genocidio, e che Albanese non ha utilizzato a cuor leggero: le ha suffragate con dati e sopralluoghi, nell’ambito del suo ruolo istituzionale. Ecco il vero motivo per cui è finita nel mirino. Altro che condividere idee misogine o teocratiche: Francesca Albanese viene bersagliata perché ha l’autorevolezza e il coraggio di chiamare i fatti col loro nome, di richiamare Israele alle proprie responsabilità di potenza occupante anche quando molti governi occidentali preferirebbero voltarsi dall’altra parte. Lei difende i diritti umani sul serio, e per questo è scomoda.
    In questa luce, l’argomento del “femminismo tradito” brandito da Sorrentino appare pura propaganda emotiva. Se davvero stesse a cuore agli accusatori la condizione delle donne palestinesi, dovrebbero anzitutto indignarsi per ciò che quelle donne subiscono quotidianamente sotto le bombe e sotto assedio. La brutalità del genocidio in corso colpisce anche le libertà femminili nella maniera più feroce e primaria: a Gaza le donne non possono decidere del proprio corpo semplicemente perché rischiano di perderlo da un momento all’altro sotto un’esplosione; né possono rivendicare diritti civili in piazza, perché non esistono più piazze sicure né istituzioni funzionanti che le tutelino. È grazie a voci come la sua se oggi sappiamo, ad esempio, che oltre il 90% dei residenti di Gaza era già a fine 2024 in condizioni di grave insicurezza alimentare, e che oltre 650.000 bambini sono rimasti senza scuola dall’inizio della “guerra”. Altro che complicità: questo significa prendere davvero sul serio i diritti umani e il femminismo, inteso come difesa della vita e della dignità di tutte le donne, incluse quelle palestinesi, troppo spesso dimenticate.
    Di fronte a queste evidenze, la tirata “liberale” di Sorrentino sul fatto che l’Italia dovrebbe chiedersi «cosa c’entra… con il terrorismo» suona pretestuosa e persino grottesca. Si allude al terrorismo palestinese che avrebbe «segnato le pagine più buie degli attentati che abbiamo subito», evocando episodi degli anni ‘70-’80 (dall’attacco di Fiumicino all’Achille Lauro) per gettare un’ombra sinistra su Albanese. Ma l’accostamento è del tutto strumentale. Francesca Albanese non ha nulla a che vedere con quei tragici eventi, se non per la volontà, condivisa da ogni giurista internazionale, di prevenirne il ripetersi attraverso la giustizia. La memoria non va deformata in clava ideologica: ricordare le vittime del terrorismo è un dovere, ma usarle per screditare chi oggi difende i diritti fondamentali è un esercizio di cinismo. Semmai, un’Italia fedele ai suoi valori democratici dovrebbe sostenere chi, come Albanese, cerca di risolvere i conflitti con gli strumenti del diritto e della verità, invece di indulgere in nuove inquisizioni mediatiche.
    In definitiva, il pezzo pubblicato su Il Tempo contro Francesca Albanese è un esercizio di diffamazione travestita da patriottismo. Ogni sua accusa crolla non appena la si confronti con i fatti documentati e con un’analisi intellettualmente onesta. CI APPARE MOLTO CHIARO, allora, che gli strali odierni contro la “regina ProPal” dicono molto di più dei suoi inquisitori che non di lei.

    @attualita #francescaalbanese #iltempo #macchinadelfango



  • - LA COLPA CHE TORNA: SHOAH, PALESTINA. L’USO DELLA MEMORIA SELETTIVA

    Dietro le campagne contro Francesca Albanese si intravede poi la gestione italiana della memoria della Shoah. Nei passaggi contestati le si rimprovera soprattutto di avere evocato il ruolo della lobby filo-israeliana negli Stati Uniti e il senso di colpa europeo rispetto all’Olocausto come fattori che condizionano la politica estera. Si tratta di temi che la storiografia critica discute da anni, in forme ben più radicali. Traverso, ad esempio, che ho citato in precedenza, descrive la trasformazione della Shoah in mito fondativo dell’Occidente, utilizzato per legittimare politiche di potenza e per zittire chi denuncia crimini commessi da stati alleati. Quando una relatrice speciale ONU riprende quel filo e lo collega al massacro di Gaza, l’intero edificio simbolico vacilla. L’Italia ha costruito una figura di sé come paese redento: patria delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler, poi culla della Resistenza, ponte morale fra Israele e Europa. In questo racconto i palestinesi restano quasi sempre fuori campo. Entrano solo come sfondo. Il fatto che un’italiana, figlia di quella storia, parli apertamente di “genocidio come cancellazione coloniale” nella Striscia, incrina un equilibrio edificato su autoassoluzione e rimozione. L’odio contro di lei svolge una funzione ben precisa, quasi catartica perché permette a una parte del ceto politico e mediatico di riaffermare la propria innocenza. Finché l’“eccessiva” resta lei, il paese può continuare a guardarsi allo specchio come campione di civiltà, perfino mentre sostiene sanzioni contro chi indaga il massacro in corso.

    - IL CORPO CHE PAGA IL PREZZO

    Infine c’è la dimensione più cruda, fisica, di questa vicenda. Le sanzioni personali, il bando di ingresso in Israele, gli attacchi alla reputazione, le minacce, i tentativi di isolarla nei contesti istituzionali costituiscono una forma di punizione esemplare. La figura della giurista serve da avvertimento ad altri funzionari internazionali. Chi osa utilizzare fino in fondo gli strumenti del diritto contro un alleato centrale dell’Occidente rischia ritorsioni dirette. È un messaggio rivolto anche ai movimenti: se persino una relatrice ONU viene colpita in questo modo, quanto può sentirsi al sicuro un attivista, un docente, un medico, un operatore umanitario, un giornalista che parla di Gaza senza filtri? Il paradosso sta qui. I governi che oggi puniscono la relatrice speciale contribuiscono a distruggere la credibilità di quegli stessi organismi che dicono di voler difendere. L’attacco a Francesca Albanese diventa attacco alla possibilità stessa di avere spazi multilaterali in cui i diritti umani valgano per molti, non soltanto per chi appartiene al blocco occidentale.

    - COSA DICE DI NOI L’ODIO CONTRO DI LEI

    L’accanimento verso Francesca Albanese svela più di quanto i suoi detrattori vorrebbero. Rivela la difficoltà, quasi l’incapacità, di una parte dell’Italia, soprattutto quella più istituzionale, mediatica, ma anche intellettuale, di sopportare la scomoda verità che esiste un genocidio in corso, commesso da uno stato che si presenta come erede delle vittime del secolo scorso, con il sostegno attivo o passivo dei governi europei, col nostro paese in prima linea.
    Rivela una cultura politica che usa i diritti umani come ornamento, salvo scaricare violenza simbolica su chi li prende sul serio. Rivela il fastidio verso una donna che rifiuta il ruolo di mascotte progressista e sceglie quello ben più ingrato di testimone giuridica. Rivela, infine, quanto poco margine resti per il dissenso dentro un blocco di potere che si percepisce assediato da Sud globali, movimenti, studenti, sindacati, tutti segnati in questi mesi da bandiere palestinesi. L’odio che la investe misura il grado di malattia del sistema che la attacca. La domanda per chi guarda da fuori, riguarda il modo in cui sostenere chi regge questo urto senza ridurla a icona. Prendere sul serio ciò che dice, studiare i documenti e usare quelle analisi per lavorare sulla coscienza collettiva. Senza aspettarsi che siano sempre e solo le donne come lei a pagare il costo del nostro risveglio.

    @attualita #francescaalbanese